Lettera aperta a un apprendista stregone
Aldo Carotenuto
Dedico le parole della “lettera aperta a un apprendista stregone” di Aldo Carotenuto e la musica di Franco Battiato a me e a tutti i colleghi che fanno questo mestiere. Tanto bello, quanto duro, insopportabile in alcuni momenti di crisi. Non arrendiamoci mai. Manteniamoci giovani. Lo dobbiamo a noi e ai nostri pazienti, a tutte le persone a noi care. Ma prima di tutto, a noi. Buona lettura, buon ascolto.
Lettera aperta a un apprendista stregone
Consentimi anzitutto, caro Apprendista Stregone, di manifestarti il mio apprezzamento – e anche un certo stupore – per la tua scelta, che suppongo meditata: quella di occuparti della Psiche. Anche un certo stupore. Detto tra noi: come ti è saltato in mente? Non è il Corpo, oggi come oggi, il campo d’azione per chi ha deciso di aiutare il prossimo a star bene con se stesso, a volersi bene incondizionatamente, e magari a meritarsi questo affetto incondizionato? Per inciso: apprezzamento e stupore aumentano per un’altra scelta, per così dire “interna” a quella principale: hai deciso di occuparti di Psicologia del Profondo. In tempi di scorciatoie, di psicoterapie prèt-à-porter o usa-e-getta, di personal coach o trainer digitali o via fax, che non sai se sia più “virtuale” il terapeuta o il paziente (probabilmente lo sono alla pari), di video e cyber-guru, di Guide Autorizzate per Escursioni sui Carboni Ardenti, hai preferito – o almeno così mi piace supporre – imboccare la via maestra della Psicologia Dinamica.
Così mi piace suppore perché quegli egregi professionisti si collocano esattamente agli antipodi della nostra visione della Psiche: la immaginano come un modello standard, più o meno uguale a se stesso nel tempo e nelle infinite repliche in circolazione; laddove la psicologia dinamica non solo non contempla postulati del genere, ma si fonda, per definizione, sulla loro negazione: la Psiche è in continua trasformazione, ed è unica e irripetibile per ogni individuo.
Ma su questo torneremo più avanti. Prima, vorrei discutere ancora un po’ di questa tua scelta, piuttosto inconsueta in verità. Non ti chiedo quando alla classica domanda “che farai da grande?” hai cominciato a rispondere “lo psicanalista” o “lo psicoterapeuta”. La risposta esplicita, un vero e proprio progetto, sarà certamente venuta molto più tardi di altre confuse aspirazioni, voci e richiami indistinti. Escluderei che a spingerti consapevolmente in questa direzione siano stati i tuoi genitori (e sottolineo “consapevolmente”, perché altrimenti i genitori c’entrano eccome!), così come si tramanda di padre in figlio una farmacia, uno studio legale o anche un’edicola di giornali. Né alle radici di questa scelta c’è un talento ereditario, come succede a scrittori, pittori e musicisti. È vero che le Enciclopedie sono piene di nomi eccellenti – storici, geografi, politici – che risultano “figlio del precedente”, e anche certe nostre prestigiose cattedre universitarie ricordano troni e dinastie regnanti. Ma gli psicoterapeuti non rientrano in questa tradizione, se si eccettua Anna Freud e qualche altro sporadicissimo caso.
Sicché la tua scelta è proprio tua; nasce da un tuo bisogno, antico, precocissimo. Non un’offesa o una violenza, ma qualcosa che ti è stato negato – che agli arbori della vita è la violenza più devastante; una lacuna, un vuoto, la mancanza di un elemento essenziale nella tua dieta affettiva – per esempio della presenza costante e avvolgente di una figura materna che ti desse l’idea o l’illusione di essere sul serio l’ombelico del mondo o almeno del suo mondo. Insomma un non-evento della tua personale preistoria, che però ha lasciato una traccia indelebile nella tua personalità allora in formazione.
Non una cicatrice, ma una ferita ancora aperta, non rimarginata. Ma tu sai, caro il mio Apprendista Stregone, che a proposito di quella ferita io mi servo volentieri di un gioco di parole, peraltro assolutamente legittimo sul piano etimologico: è una “ferita”, ed è una “feritoia”, un minuscolo varco che ti consente di tenere d’occhio il tuo mondo interiore, di scrutare e indagare la parte più misteriosa e segreta di te stesso, la parte “sommersa”.
E a questo punto vorrei ricordarti che nel tuo caso (nel nostro caso) il sarcastico invito al vangelo di San Luca “Medice, cura te ipsum” finisce col coincidere col socratico motto “Nosce te ipsum”… Ma questo è un discorso che deve restare tra noi, perché se si sa in giro che tu personalmente sei un soggetto da psicoterapia proprio come i tuoi futuri pazienti, c’è il rischio di incrementare i già abbastanza diffusi stereotipi caricaturali dello psicoterapeuta più bisogno di cure del suo paziente (dai più corrivi psichiatri che si credono Napoleone ai più sofisticati “strizzacervelli” messi in scena da Woody Allen); però è un fatto che quello che tu ti aspetti dalla professione che hai scelto somiglia in maniera impressionante a quello che si aspetteranno i tuoi futuri pazienti da te.
Dico “quello che si aspetteranno” e non “quello che formalmente ti chiederanno” perché si sa che il paziente al primo incontro può in perfetta buonafede avanzare, insieme ad una sommaria autodiagnosi, le richieste più disparate: essere aiutato a “realizzare se stesso” o invece a diventare “uguale agli altri”, a uscire dal gregge o a rientrarvi; a trovare una ragione per vivere o semplicemente la forza per tirare avanti, quando non addirittura il coraggio di farla finita (io l’ho avuta una paziente così, che in seguito ha scoperto di voler solo “rinascere”).
In realtà quello che inconsapevolmente ci chiedono è di essere aiutati a crescere. Che poi è esattamente quello che ti aspetti anche tu dalla professione che hai deciso di abbracciare per chiudere finalmente quel famoso conto aperto in età precocissima, ripianare quel deficit attentivo. Strano, vero? Non credo che un giovane che abbia sofferto di tonsille da bambino si senta poi portato per l’otorinolaringoiatria. E invece nel nostro campo succede: ti conti di curare il tuo disagio psichico curando i disagi psichici degli altri.
Ma attenzione: io ho parlato di “crescere” e non di “guarire”. Non augurarti la guarigione. Perché se davvero la tua ferita-feritoia dovesse richiudersi, a quel punto non ti resterebbe che cambiare mestiere.
Ma il problema non si porrà, stai tranquillo; proprio perché anche tu, come il tuo futuro paziente, non hai bisogno di “guarire”, ma di “crescere”. Guai allo psicoterapeuta che non cresce coi suoi pazienti; perché se è vero che attraverso i pazienti egli cura se stesso, è altrettanto vero che gli cura i pazienti attraverso se stesso. E se lui stesso smette di crescere, che aiuto potrà dare al paziente? Mi viene in mente una battuta di un famoso film di Mel Brooks, Frankenstein junior, quando il gobbo Igor – Marty Feldman porge volenterosamente a Gene Wilder, in difficoltà nel salire una rapida scala del “maniero avito”, il suo bastoncino da nanerottolo: “Si aiuti, con questo, dottore!”.